Il Ransomware ha reso evidente che il backup da solo non basta se è centralizzato, modificabile e raggiungibile dagli stessi privilegi compromessi dall’attaccante. Servono copie sicure, immutabili e distribuite, con ripristini verificabili e un audit trail che dimostri chi ha fatto cosa e quando. L’obiettivo non è solo recuperare i dati, ma ridurre drasticamente la superficie d’attacco e il tempo di fermo, garantendo la continuità del business.
Ransomware e backup: architettura di difesa a prova di guasto
I modelli tradizionali di backup soffrono di tre fragilità ricorrenti: singoli punti di fallimento, credenziali condivise con l’ambiente di produzione e assenza di immutabilità reale. In un attacco Ransomware, queste debolezze consentono la cifratura o la cancellazione mirata delle copie di riserva, estendendo l’impatto e allungando i tempi di ripristino. Un approccio moderno combina cloud decentralizzato e cifratura end-to-end con un meccanismo di frammentazione: ogni file viene suddiviso in parti cifrate e distribuite su migliaia di nodi eterogenei, eliminando il single point of failure e rendendo inutile il movimento laterale dell’attaccante verso un unico repository di backup.
La distinzione tra dati di produzione e copie di sicurezza deve essere netta, con policy di accesso granulari e un SSO integrato all’autenticazione a due fattori (A2F) per ridurre account deboli e privilegi permanenti. In questo modello, il backup non è un’istantanea isolata ma un servizio resiliente: le versioni sono tracciate in modo immutabile, le autorizzazioni sono revocabili in qualunque momento e l’integrità è verificabile indipendentemente dai sistemi compromessi. L’assenza di lock-in e la scalabilità lineare permettono di pianificare capacità e costi con precisione, evitando architetture complesse e onerose da manutenere proprio quando servirebbe semplicità.
Ransomware e backup: dal dato immutabile al ripristino verificato
La vera discriminante in uno scenario Ransomware non è “se” si possiede un backup, ma “quanto velocemente e con quali garanzie” si può tornare operativi. Un audit trail immutabile registra versioni, accessi, condivisioni e approvazioni; il DRM documentale assegna a ogni file una “carta d’identità” con metadati e QR univoco che punta sempre all’ultima versione approvata. Questo consente di smettere di inseguire copie locali e link obsoleti: il dato autorevole è uno, verificabile e raggiungibile da reparti interni, fornitori e auditor senza duplicazioni incontrollate.
Sul piano operativo, il versioning automatico e le notifiche intelligenti evitano che circolino release non conformi dopo un ripristino: quando una SDS, una specifica tecnica o un contratto viene aggiornato, i destinatari ricevono l’alert e accedono al documento corretto senza scambiare allegati vulnerabili. Le stanze di lavoro dedicate separano le fasi: in Edit Room si orchestrano correzioni e prepulizia post-incidente, mentre in Audit Room si documentano evidenze e si produce il report immodificabile per la governance e gli organi di controllo. Il ripristino puntuale (per data/versione) riduce l’RPO; test di restore schedulati consentono di validare RTO realistici, trasformando il piano di continuità da documento statico a pratica misurabile.
Integrare questi meccanismi nel ciclo di risposta agli incidenti porta a tre effetti concreti: l’attaccante non trova un vault centralizzato da compromettere, il ripristino non re-introduce copie inquinate e l’organizzazione può dimostrare diligenza tecnica e organizzativa con log e report coerenti. In parallelo, la cifratura forte su più frammenti distribuiti impedisce la ricostruzione del file senza le chiavi appropriate, mentre la geo-distribuzione assicura resilienza anche in caso di indisponibilità di singoli nodi o regioni. Ne risulta un modello in cui backup, condivisione controllata e collaborazione forense convivono nello stesso perimetro zero-trust, riducendo sia i tempi di fermo sia il rischio di ri-esposizione dopo l’incidente.
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